The Climate Book, curato da Greta Thunberg (2022)

Mi sono trovato a domandarmi, leggendo questo massiccio volume di oltre quattrocento pagine pubblicato in Italia da Mondadori, se sia stata fatta una analisi costi-benefici, al momento della pubblicazione, riguardo al mettere in copertina il nome della curatrice, e non semplicemente “Autori Vari”.

Per motivi di una stupidità abissale, Greta Thunberg gode di una pessima stampa presso una fetta del pubblico, e mettere il suo nome in copertina significa giocarsi una parte consistente di lettori – proprio nella fascia alla quale la lettura gioverebbe di più.
O forse no, perché è molto difficile far cambiare idea a chi ha paura di cambiarla.

Ed è un peccato, perché The Climate Book è un ottimo testo, che riunisce una quantità di contributi di ricercatori ed accademici, e fornisce una summa dello stato attuale delle conoscenze riguardo alla crisi climatica in atto.
Ci sono certamente testi migliori sui singoli aspetti del fenomeno, ma non esiste al momento un testo altrettanto buono che copra tutte le basi – la scienza, i dati, i termini tecnici, l’impatto dei fenomeni sulla vita quotidiana, lo stato degli interventi per mitigare gli effetti più catastrofici.
Il tutto scritto in termini molto chiari e diretti, e presentato in capitoli di non più di tre pagine, corredati da numerosi grafici e immagini.

Il volume fa un ottimo lavoro nel presentare in maniera semplice ma non semplicistica il mosaico di cause ed effetti attualmente all’opera – ed è solo acquisendo una visione globale del problema diventa possibile avere un’idea chiara di come sì, ci sia un problema, e sia necessario darsi da fare per risolverlo.

Per coloro che avesero dei dubbi, il testo non perde tempo a farci la predica, e si focalizza sui fatti e sullo stato attuale delle conoscenze.
Vista la rapidità con cui le condizioni stanno cambiando – a fronte del fatto che i nostri amministratori sembrano più interessati a regolamentare i genitali della popolazione che non a garantirne la sopravvivenza a lungo termine – è molto probabile che in capo a cinque anni tutto ciò che c’è qui dentro sia superato.
E forse a quel punto non avremo neanche più il tempo per leggerlo, un libro come questo.

Ma forse, se abbastanza persone lo leggeranno e cominceranno a fgarsi delle domande, avremo una possibilità.

E il post contiene un link ad Amazon, che porterà qualche centesimo nelle mie casse, qualora decideste di acquistare il libro (consiglio il rilegato rigido – per le illustrazioni, eperché l’ebook ha un prezzo ridicolo).

About Writing, Gareth L. Powell (2022)

Un “manuale per scrittori” che non pretende di dettare delle regole, ma offre opzioni apartire dall’esperienza dell’autore, uno dei pilastri della nuova space opera britannica, con quindici romanzi pubblicati all’attivo.

About Writing è una “field guide” con un sacco di buone idee, un sacco di suggerimenti, e che non pretende di rivelare la verità definitiva.
Copre tutti gli aspetti di base, dalla pianificazione del lavoro alla gestione del tempo. Offre dettagli su contratti, agenti, editor. E chiude con una sezione molto personale e autobiografica sul percorso personale di Powell.

Non perde tempo con avverbi e show-don’t-tell, ma in questo modo riesce ad essere un testo di consultazione con una vita abbastanza lunga e non un manuale mordi-e-fuggi.

Eccellente.

Writing the Other, Nisi Shawl & Cynthia Ward (2005)

Un breve saggio basato su un corso, a sua volta nato da una discussione che le autrici affrontarono durante il Clarion Writers Worksho, Writing the Other – a practical approach è una lettura interessante e deprimente al tempo stesso.

L’idea di fondo è che un autore o un’autrice debbono essere in grado di scrivere storie su personaggi diversi da loro, e devono riuscire a farlo in maniera divertente, corretta, e che non risulti offensiva per le altre culture, religioni o stili di vita rappresentati.

Una guida insomma su come evitare l’appropriazione culturale, l’orientalismo e la riduzione degli altri (chiunque essi siano) a macchiette o stereotipi.
Ottimo.
Il volume è breve e molto specifico, ed è costellato di esercizi “alla Clarion” per aiutare il lettore a provare e disinnescare certi meccanismi che – come le autrici sottolineano nella prima pagina – sono purtroppo inevitabili, ma si possono correggere con la pratica.

Ciò che rende deprimente la lettura è proprio la consapevolezza di quanto sia comune e pervasiva la tendenza a ridurre tutto ciò che è diverso da noi a stereotipo – un peccato che, inconsapevolmente, commettono anche le due autrici: il volume infatti, per quanto interessante e utile, è anche completamente americanocentrico, e pare suggerire che sì, tutti abbiamo dei pregiudizi, e questi sono i pregiudizi dell’americano medio.
Se tutti i suggerimenti, i principi e gli esercizi del libro sono perfettamente applicabili a qualunque identità, è anche vero che è necessario lavorarci perché non tutti noi (fortunatamente?) siamo residenti del Maine.

Resta comunque una lettura interessantissima.

[e come al solito c’è un link commerciale ad Amazon, ed io vi devo avvertire che se acquisterete il libro, Amazon mi verserà unapercentuale]

Understanding Chinese Fantasy Genres: A primer for wuxia, xianxia e xuanhuan, di Jeremy ‘Deathblade’ Bai, 2020

Due giorni fa ho finito un grosso lavoro di traduzione che non vedevo l’ora di togliermi di mezzo per liberare la mia scrivania per l’imminente lavoro di scrittura di un romanzo che mi porterà viai prossimi due mesi. Per celebrare la conclusione della traduzione, mi sono regalato un ebook e una copia di Understanding Chinese Fantasy Genres: A primer for wuxia, xianxia e xuanhuan, di Jeremy “Deathblade” Bai’.

Ora, prima di tutto, quanto è bello avere “Deathblade” come soprannome.
Voglio dire, nel mio caso, i miei amici mi chiamano “Doc”.
Noioso.
Ma “Deathblade”? Ah!

Sono venuto a conoscenza del lavoro di Jeremy Bay per la prima volta attraverso l’eccellente gioco di ruolo Righteous Blood, Ruthless Blades, pubblicato da Osprey. Un gioco progettato per simulare l’azione selvaggia dei film e dei romanzi wuxia e un’ottima alternativa all’onnipresente gioco di ruolo fantasy finto-medievale.

Sono rimasto davvero colpito dal gioco e ho guardato cosa avessero in catalogo gli autori (Brendan Davis ha collaborato con Bai al gioco) e mi sono ritrovato a cadere nella classica tana del coniglio.

Ora, mi piace il fantasy cinese, ma l’ho sperimentato soprattutto attraverso i testi “classici” – Romance of Three Kingdoms, The Water margin, Journey to the West ecc. – che attraverso i più recenti serial in più volumi che sembrano essere estremamente popolari. E ovviamente guardavo i film di Hong Kong molto prima che diventasse cool.
E ho spesso flirtato con wuxia nelle mie storie (non so con quale successo o in modo convincente).
Il primer di Jeremy Bai sui generi del fantasy cinese è esattamente ciò di cui avevo bisogno per mettere un po’ di ordine nella mia conoscenza patchwork dei tropi, dei temi e delle tendenze di un ENORME mondo di storie.

Il libro è breve (148 pagine in ebook, che costano meno di 3 euro) e va al punto, illustrando le idee di base e le stranezze di wuxia (fondamentalmente sword & sorcery cinese), xianxia (high fantasy cinese ad alta numero di ottani) e xuanhuan (che mescola modi occidentali e orientali nella sua narrazione).
Brevi capitoli forniscono background culturale, esempi e contesto storico per gli elementi costitutivi delle storie. È un’utile introduzione sia per i lettori che per gli aspiranti scrittori e contiene molti spunti interessanti sulla questione della traduzione che, come traduttore io stesso, ho trovato particolarmente interessanti.
C’è anche una lunga lista di lettura – che promette molte ore di esplorazione.
Una lettura leggera ma altamente istruttiva e sì, che porterà a guardare più film, più libri e chissà, forse porterà alla scrittura di alcune storie.

Altamente raccomandato a chiunque sia interessato al fantasy cinese e orientale.

[questo post contiene un link commerciale ad Amazon, ed in caso di acquisto mi verrà versata una piccola percentuale]

Writing the Uncanny, Coxon & Hirst (2021)

Il volume curato da Dan Coxon & Richard V. Hirst si presenta come un manuale di scrittura, ma non contiene istruzioni, regole o accorgimenti che un autore possa utilizzare per il proprio lavoro. Si tratta invece di una collezione di articoli di autori contemporanei, tutti più o meno associati a quel genere letterario che occupa lo spazio fra il fantastico ed il weird.

Prendendo le mosse dal lavoro di Sigmund Freud “Das Unheimichle” del 1919, che crea la definizione di “Uncanny” e passando per l’opera di Shirley Jackson e di Robert Aickman, che danno forma ad un catalogo di esempi di questo sottogenere, gli autori coinvolti in Writing the Uncanny cartografano le acque incerte di un genere che è a tal punto indefinito da non avere una collocazione precisa – horror, fantasy, storia di spettri, narrativa surreale…
I diversi aspetti del genere vengono ampiamente discussi, con un taglio fortemente personale – al punto che ciascun articolo è quasi un breve saggio sul rapporto che lega l’autore o l’autrice al genere.

Si può certamente imparare molto leggendo queste pagine, come si impara sempre nell’ascoltare i colleghi che discutono del porprio lavoro, ma un autore in cerca di un manuale potrebbe sentirsi deluso o tradito.

Per me rimane una lettura affascinante e divertente – e chissà, forse un giorno utile – ma non si tratta necessariamente di un libro per tutti.

E come sempre c’è un link commerciale in questo post. Sapete come vanno queste cose.

How to live on Mars, Robert Zubrin (2008)

Robert Zubrin, classe 1952, è un ingegnere aerospaziale che da qualcosa come trent’anni promuove l’idea della colonizzazione di marte. Il suo libro The Case for Mars, uscito nel 1996, è certamente uno dei migliori testi sulla colonizzazione del pianeta rosso mai scritti. Il successivo Entering Space, del ’98, è altrettanto buono. Dopo anni di lavoro con la Lockeed Martin e nel settore aerospaziale – sviluppando tra l’altro il progetto Mars Direct – Zubrin fondò nel 1998 la Mars Society, per promuovere i progetti di esplorazione e colonizzazione umana di Marte.

Considerata la qualità e la longevità dei volumi precedenti, è con un certo interesse che ho messo le mani su How to live on Mars, sottotitolato A Trusty Guidebook to Surviving and Thriving on the Red Planet, ed uscito nel 2008.
Non è stata una lettura facile.

Da sempre su posizioni più o meno libertarie, Zubrin ha sviluppato negli anni una evidente animosità nei confronti di NASA ed ESA, e di tutti i progetti pubblici di esplorazione spaziale – forse perché i suoi progetti non sono andati da nessuna parte. Il volume del 2008 è perciò farcito di continue divagazioni sulla stupidità dei progetti dei governi americani ed europei, sullo spreco di risorse e sull’arretratezza delle tecnologie sviluppate dalla NASA e dall’ESA.
Se siamo qui per leggere di Marte e della colonizzazione del pianeta, poco ci importa di un continuo martellamento su quanto sia preferibile ed efficiente l’iniziativa privata. E l’idea del prendere scorciatoie, infischiarsene delle regolamentazioni e degli accordi al fine di “afferrare il futuro” suonano vagamente sinistri allo stato attuale.

Ma ancora più irritante dell’impianto ideologico di Zubrin, è la scelta del linguaggio, a rendere faticosa la lettura. Rubando l’idea a Gerard K. O’Neill, che scrisse una docufiction per presentare le proprie idee sulla colonizzazione spaziale (in 2081: A Hopeful View of the Human Future, del 1981), Zubrin ci presenta il suo manuale sulla colonizzazione marziana come un documento ad uso dei coloni appena sbarcati sul pianeta rosso, o per le persone che stessero pensando di emigrare.
Una scelta curiosa, considerando le frecciate che Zubrin riserva a O’Neill, già fisico e consulente NASA, liquidato come “autore fantasy”. Ed una scelta nefasta nella decisione di utilizzare un tono arrogante e ironico – l’ipotetico autore del pamphlet diretto ai coloni è uno che la sa lunga, che ha visto il mondo e che dice le cose come stanno, con una supponenza assolutamente irritante ed un cinismo a tratti insopportabile.
È come essere obbligati ad ascoltare un personaggio di Robert A. Heinlein che ci spiega perché non abbiamo capito nulla della vita, per pagine e pagine e pagine.

Ancora una volta, noi siamo qui per saperne di più sulla possibilità di colonizzare Marte – e le informazioni ci sono, concise e interessanti. Ma sono seppellite sotto pagine e pagine di pessima prosa, e avvelenate dall’ipotesi, che si fa più prepotente mano a mano che si procede nelal lettura, che certe soluzioni o ipotesi vengano scartate semplicemente perché fanno parte dell'”ortodossia della NASA”, mentre altre vengono presentyate come eccezionali perché animate da un sano desiderio per il profitto.

Un vero peccato, perché l’argomento è interessante e – quando Zubrin si ricorda di svilupparlo – ben sviluppato.

Silence, Erling Kagge (2017)

Dopo aver finito Walking in un paio di giorni, ho fatto un giro nella bottega del signor Bezos, ed ho trovato una copia usata del volume precedente di Erling Kagge – Silence, in the age of noise, pubblicato nel 2017.
Qui da noi, il libro lo pubblica Einaudi, col titolo di Il silenzio, uno spazio dell’anima.
Non starò ad elaborare su questo vezzo di cambiare i sottotitoli dei libri di Kagge.
Il volume della Penguin ha lo stesso formato, la stessa impostazione dell’altro volume – questa volta la copertina è celeste pallido, con inserti in argento.
Trattandosi di un libro che ha una affinità con tradizioni come lo zen e la meditazione, è opportuno che io lo abbia acquistato di seconda mano – da quasi vent’anni acquisto i miei libri su zen e taoismo solo di seconda mano.
Perché sì.
E acquistare libri usati ha ancora un senso: la copia che mi è arrivata a casa è pressocché nuova, e mi è costata meno della metà dell’ebook in italiano.

Silence forma un interessante dittico con il successivo – ma che io ho letto prima – Walking.
Se Walking è un libro dedicato allo spazio, Silence è un libro dedicato al tempo.
I due lavorano insieme, per formulare una sorta di filosofia generale della percezione – procedere con lentezza e in silenzio è per Kagge il modo per riappropriarci delle nostre esperienze, e per ridare profondità alle nostre esistenze.

La questione del silenzio, di come si leghi alla nostra percezione del tempo, e di come il silenzio incida sulle nostre esistenze è sviluppata con semplici esempi e considerazioni che non sono mai banali.
In particolare, mi ha colpito il tredicesimo capitolo – che da una parte collega il grado di rumore nelle nostre vite al nostro livello socio-economico (i poveri vivono in ambienti più rumorosi), e dall’altra esamina il silenzio come antitesi della ricerca del lusso e, in parallelo, la ricerca della visibilità e dell’esposizione.
È un tema interessante per chi si trova a cercare di vivere comunicando con il pubblico – attraverso libri e articoli e post sui blog – ma al contempo non ha più l’età, o l’energia, o l’indole per inseguire la cresta dell’onda.

Un buon volume, con una buona selezione di immagini suggestive, una lettura rapida e intelligente, e forse, anche se solo per mezzo punto, meglio del volume letto in precedenza.

Walking, Erling Kagge (2018)

In italiano, Walking, one step at a time, del norvegese Erling Kagge, è stato pubblicato da Einaudi col titolo di Camminare, un gesto sovversivo – così potete leggerlo e sentirvi dei ribelli che lottano contro il sistema, mentre ve ne state comodamente seduti in poltrona.

È in fondo il rischio che si corre con questo libro – quello di leggerlo e pensare che basti quello.
Per essere dei sovversivi, se lo leggete in italiano e quella è la vostra inclinazione, per essere persone che vivono in maniera un po’ più organica il proprio tempo in tutti gli altri casi.
L’idea invece è che questo libro dovrebbe invogliarci a posare il libro medesimo, e andare a farci una passeggiata.
E in effetti ci riesce.
Sovversivi forse no, ma camminatori sì.

Erling Kagge, classe 1963, è un esploratore ed avventuriero, la prima persona ad aver raggiunto il Polo Nord, il Polo Sud e la vetta dell’Everest a piedi. Il suo volume – che nell’edizione inglese è bello compatto e piacevole al tatto, la copertina di carta ruvida e con inserti color rame – è una collezione di riflessioni sull’importanza di andare a piedi. Magari non per essere sovversivi (che resta un assunto abbastanza dubbio) o perché fa bene alla salute (un dato di fatto molto più facile da dimostrare), ma perché fa bene alla salute mentale. Andare a piedi, sostiene Kagge, modifica il nostro rapporto col tempo – che è una risorsa finita a nostra disposizione, e che sarebbe bello saper amministrare meglio.

Camminare, di Kagge non è un manuale, non è un libro di viaggi – anche se descrive alcune delle camminate dell’autore – non è un testo di self help. È un piccolo libro sulla filosofia personale di una persona che ha passato un sacco di tempo a macinare chilometri apiedi. È possibile – ed auspicabile – che alcuni elementi di questa filosofia entrino a far parte anche della nostra.

Non necessariamente per essere sovversivi, ma forse per vivere un po’ meglio.
Una buona lettura per un finesettimana estivo in cui fa troppo caldo per uscire a camminare.

E naturalmente questo post contiene un link commerciale ad Amazon – per l’edizione italiana, che costa due euro in più rispetto a quella inglese che ho comprato io. Qualora voleste acquistarlo, sono tenuto a informarvi che Amazon mi verserà una minuscola percentuale, senza peraltro maggiorare il prezzo che pagherete.

Ghostland, di Edward Parnell (2019)

È molto improbabile che il libro di Edward Parnell venga tradotto nella nostra lingua, e forse è giusto così – si tratta di un testo terribilmente anglocentrico, e richiede una mappa (o Google Maps) a portata di mano per seguire le peregrinazioni dell’autore.
Ma è anche un libro estremamente interessante per ciò che è, e per come fa ciò che vuole fare.

Ghostland è al contempo un saggio sui generis sulla narrativa sovrannaturale inglese classica, una esplorazione del paesaggio delle isole britanniche e del rapporto fra il paesaggio, il folklore e la letteratura, il tutto attraverso la lente estremamente personale delle esperienze dell’autore. È quindi anche una sorta di autobiografia e un libro di viaggio.

Al centro del volume c’è una tragedia personale – gli eventi che hanno portato Edward Parnell a perdere, in un lasso di tempo molto breve, entrambi i genitori e il fratello maggiore.
Per elaborare questo lutto, Parnell si mette in viaggio per visitare i luoghi della sua infanzia, esplorati a suo tempo coi suoi familiari, seguendo il filo conduttore di due passioni che l’autore condivideva col fratello: le storie di spettri e il birdwatching.

Nel corso di quest strano pellegrinaggio, Parnell ritorna nei luoghi di M.R. James, Arthur Machen, Sheridan LeFanu e tutti gli altri grandi autori del sovrannaturale, e ne ripercorre le vicende, ricordando le storie più importanti per la sua esperienza di lettore – e non solo, perché ci sono gli adattamenti televisivi, e i film, e tutto quell’immaginario macabro che fu uno dei capisaldi dell’intrattenimento per ragazzi negli anni ’70.

Alcuni recensori hanno fatto notare come l’analisi della letteratura britannica del sovrannaturale fatta da Parnell sia incompleta e poco accademica; altri hanno sottolineato come non gliene freghi assolutamente nulla degli avvistamenti di corvi, passeri e altri uccelli ai quali Parnell dedica ampio spazio, nel percorere i boschi e le brughiere che fecero da sfondo ai lavori dei suoi autori preferiti.
Le pagine sono costellate non solo di titoli e riferimenti letterari, ma anche di fotografie, scattate dall’autore durante il suo viaggio, e illustrazioni tratte dal folklore e dalla storia del territorio.
Questi critici si perdono per strada un punto essenziale – il fatto che questo libro non è e non vuole essere un saggio esaustivo sulla letteratura fantastica, ma un viaggio personale attraverso una passione privata, vissuta come un legame con persone che non ci sono più.

Ghostland è una lettura interessante e a tratti dolorosa.
Per chi è cresciuto con le vecchie storie di fantasmi, è come una chiacchierata con un vecchio amico o forse, chissà, come guardarsi allo specchio.

E sì, questo post contiene un link commerciale ad Amazon, che porta una piccola percentuale nelle mie tasche in caso di acquisto da parte vostra – e considerando che l’ebook al momento costa quasi 15 euro, il consiglio è di spendere un paio di euro in più ed acquistare il cartaceo.

Piemontesi ai Confini del Mondo

Questo post non è una recensione, perché solo i cialtroni recensiscono i propri libri – ed è del mio ultimo libro che voglio parlare: Piemontesi ai confini del mondo, una raccolta di brevi biografie su ventidue piemontesi che si impegnarono per dimostrare che l’ipotetico immobilismo dei bogia nèn è una leggenda metropolitana.

Il volume allinea esploratori, navigatori, diplomatici, religiosi, gente che non vedeva l’ora di arrivare e gente che avrebnbe fatto a meno di andarci – toccando tutti i continenti del globo, fra avventure e disavventure, incontri inaspettati ed eventi improbabili.

Il libro è illustrato con fotografie, mappe e disegni, ed arricchito da timeline e altre delizie grafiche delle quali non posso atribuirmi la paternità.

E ci sono dentro anche i segreti dei faraoni, la Transiberiana e un dirigibile – anzi, due dirigibili. E Shanghai.
Perché si sarà ormai capito che certe cose sono una presenza quasi fissa, nei miei libri.

Il volume verrà presentato al prossimo Salone del Libro di Torino, ed è già disponibile per essere ordinato nel negozio online dell’editore, Edizioni Savej.

Leggetelo, che dicono che non sia male…