Utopia Avenue, di David Mitchell (2020)

Dall’autore di Cloud Atlas e Number9Dream, la biografia fittizia di una ipotetica rock band inglese degli anni ’70 potrebbe sembrare, in prima battuta, molto distante dal quasi-fantasy/più-o-meno-fantascienza per cui Mitchell è noto (forse “famoso” non è la parola giusta).

Ma la lettura riserva delle sorprese – formato nella seconda metà degli anni ’60 da un bassista blues, un batterista jazz, una cantante folk e un chitarrista psichedelico, il gruppo degli Utopia Avenue esiste in un mondo in cui è possibile chiacchierare con David Bowie, passare una serata con Leonard Cohen o con Brian Jones, ma in cui si manifestano anche alcune delle stranezze sovrannaturali (?) che Mitchell infila abitualmente nelle sue storie. E Mitchell è sempre stato affascinato dalla musica, e quello è il primo legame di questo romanzo con il resto dell’opera dell’autore.

E mentre seguiamo le peripezie dei quattro non esageratamente fortunati musicisti, tra Londra, le serate in provincia e poi il successo e l’America, cominciamo anche a scorgere dei contatti con altri lavori di Mitchell – il chitarrista è Jasper de Zoet (discendente del protagonista di The Thousand Autumns of Jacob de Zoet), e la band è rappresentata da Levon Frankland, già comparso in The Bone Clocks. E qualcosa si aggira per le pagine di Utopia Avenue che probabilmente abbiamo già incontrato altrove – a cominciare da Ghostwritten, il primo libro di Mitchell.
Dare la caccia ai riferimenti e ai contatti può diventare una specie di gioco di società da affiancare alla lettura.

Divertente, scritto in uno stile molto diretto (e al tempo presente, per la dannazione dei puristi), interessante per gli appassionati di musica – che ci ritroveranno TUTTI, da Syd Barret a Paul Kantner e Marty Balin – per chi ama le storie alternative e per tutti coloro ai quali piace il non-proprio-realismo di Mitchell, Utopia Avenue fa venir voglia di tirar fuori un paio di vecchi vinili – o una playlist tattica su Spotify – e tornare ad immergersi nel suono di quell’epoca.

[e nel caso foste interessati, qui sopra trovate il link alla pagina autore di Mitchell, dove ci sono tutti i suoi libri, in italiano e in inglese – e sì, si tratta di un link commerciale, e qualora voleste fare un acquisto, Jeff Bezos verrà a casa mia aportarmi un paio di centesimi]

About Writing, Gareth L. Powell (2022)

Un “manuale per scrittori” che non pretende di dettare delle regole, ma offre opzioni apartire dall’esperienza dell’autore, uno dei pilastri della nuova space opera britannica, con quindici romanzi pubblicati all’attivo.

About Writing è una “field guide” con un sacco di buone idee, un sacco di suggerimenti, e che non pretende di rivelare la verità definitiva.
Copre tutti gli aspetti di base, dalla pianificazione del lavoro alla gestione del tempo. Offre dettagli su contratti, agenti, editor. E chiude con una sezione molto personale e autobiografica sul percorso personale di Powell.

Non perde tempo con avverbi e show-don’t-tell, ma in questo modo riesce ad essere un testo di consultazione con una vita abbastanza lunga e non un manuale mordi-e-fuggi.

Eccellente.

Writing the Other, Nisi Shawl & Cynthia Ward (2005)

Un breve saggio basato su un corso, a sua volta nato da una discussione che le autrici affrontarono durante il Clarion Writers Worksho, Writing the Other – a practical approach è una lettura interessante e deprimente al tempo stesso.

L’idea di fondo è che un autore o un’autrice debbono essere in grado di scrivere storie su personaggi diversi da loro, e devono riuscire a farlo in maniera divertente, corretta, e che non risulti offensiva per le altre culture, religioni o stili di vita rappresentati.

Una guida insomma su come evitare l’appropriazione culturale, l’orientalismo e la riduzione degli altri (chiunque essi siano) a macchiette o stereotipi.
Ottimo.
Il volume è breve e molto specifico, ed è costellato di esercizi “alla Clarion” per aiutare il lettore a provare e disinnescare certi meccanismi che – come le autrici sottolineano nella prima pagina – sono purtroppo inevitabili, ma si possono correggere con la pratica.

Ciò che rende deprimente la lettura è proprio la consapevolezza di quanto sia comune e pervasiva la tendenza a ridurre tutto ciò che è diverso da noi a stereotipo – un peccato che, inconsapevolmente, commettono anche le due autrici: il volume infatti, per quanto interessante e utile, è anche completamente americanocentrico, e pare suggerire che sì, tutti abbiamo dei pregiudizi, e questi sono i pregiudizi dell’americano medio.
Se tutti i suggerimenti, i principi e gli esercizi del libro sono perfettamente applicabili a qualunque identità, è anche vero che è necessario lavorarci perché non tutti noi (fortunatamente?) siamo residenti del Maine.

Resta comunque una lettura interessantissima.

[e come al solito c’è un link commerciale ad Amazon, ed io vi devo avvertire che se acquisterete il libro, Amazon mi verserà unapercentuale]

Understanding Chinese Fantasy Genres: A primer for wuxia, xianxia e xuanhuan, di Jeremy ‘Deathblade’ Bai, 2020

Due giorni fa ho finito un grosso lavoro di traduzione che non vedevo l’ora di togliermi di mezzo per liberare la mia scrivania per l’imminente lavoro di scrittura di un romanzo che mi porterà viai prossimi due mesi. Per celebrare la conclusione della traduzione, mi sono regalato un ebook e una copia di Understanding Chinese Fantasy Genres: A primer for wuxia, xianxia e xuanhuan, di Jeremy “Deathblade” Bai’.

Ora, prima di tutto, quanto è bello avere “Deathblade” come soprannome.
Voglio dire, nel mio caso, i miei amici mi chiamano “Doc”.
Noioso.
Ma “Deathblade”? Ah!

Sono venuto a conoscenza del lavoro di Jeremy Bay per la prima volta attraverso l’eccellente gioco di ruolo Righteous Blood, Ruthless Blades, pubblicato da Osprey. Un gioco progettato per simulare l’azione selvaggia dei film e dei romanzi wuxia e un’ottima alternativa all’onnipresente gioco di ruolo fantasy finto-medievale.

Sono rimasto davvero colpito dal gioco e ho guardato cosa avessero in catalogo gli autori (Brendan Davis ha collaborato con Bai al gioco) e mi sono ritrovato a cadere nella classica tana del coniglio.

Ora, mi piace il fantasy cinese, ma l’ho sperimentato soprattutto attraverso i testi “classici” – Romance of Three Kingdoms, The Water margin, Journey to the West ecc. – che attraverso i più recenti serial in più volumi che sembrano essere estremamente popolari. E ovviamente guardavo i film di Hong Kong molto prima che diventasse cool.
E ho spesso flirtato con wuxia nelle mie storie (non so con quale successo o in modo convincente).
Il primer di Jeremy Bai sui generi del fantasy cinese è esattamente ciò di cui avevo bisogno per mettere un po’ di ordine nella mia conoscenza patchwork dei tropi, dei temi e delle tendenze di un ENORME mondo di storie.

Il libro è breve (148 pagine in ebook, che costano meno di 3 euro) e va al punto, illustrando le idee di base e le stranezze di wuxia (fondamentalmente sword & sorcery cinese), xianxia (high fantasy cinese ad alta numero di ottani) e xuanhuan (che mescola modi occidentali e orientali nella sua narrazione).
Brevi capitoli forniscono background culturale, esempi e contesto storico per gli elementi costitutivi delle storie. È un’utile introduzione sia per i lettori che per gli aspiranti scrittori e contiene molti spunti interessanti sulla questione della traduzione che, come traduttore io stesso, ho trovato particolarmente interessanti.
C’è anche una lunga lista di lettura – che promette molte ore di esplorazione.
Una lettura leggera ma altamente istruttiva e sì, che porterà a guardare più film, più libri e chissà, forse porterà alla scrittura di alcune storie.

Altamente raccomandato a chiunque sia interessato al fantasy cinese e orientale.

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Le Vie della Seta, di Peter Frankopan & Neil Packer, 2021

Questo è il regalo di Natale (o della Befana) ideale per un ragazzo o una ragazza tra la fine delle elementari e l’inizio delle medie, che abbia una curiosità per la storia, per l’avventura, o per i libri illustrati.

E per correttezza, questa recensione è basata sul volume originale in inglese, uscito un paio di anni or sono, e del quale questa edizione italiana è la traduzione.

L’edizione illustrata de Le Vie della Seta, appena uscita per i tipi della Mondadori, è una riduzione del volume di Peter Frankopan dallo stesso titolo, un adattamento delle oltre seicento pagine dell’eccellente saggio originale per un pubblico più giovane.

Il libro (un bel rilegato rigido di grandi dimensioni), il cui sottotitolo è Una nuova storia del mondo, usa le Vie della Seta storiche per analizzare i cambiamenti nel corso della storia della nostra civiltà, dalla diffusione delle epidemie alla diffusione delle religioni e filosofie, allo scambio di merci ed idee.
È splendidamente illustrato da Neil Packer, con mappe e tavole a tutta pagina, e per questo è un’eccellente strenna natalizia – e chissà, potrebbe stimolare in un adolescente il desiderio di saperne di più, e la consapevolezza che esistiamo in un mondo interconnesso del quale tutti siamo partecipi.

(e come al solito ci sono dei link commerciali in questo post … sapete come succede)

Future Rising, di Andrew Maynard (2020)

Parlavo qualche giorno addietro con un amico, di come negli ultimi venti o trent’anni il futuro sia in qualche modo passato di moda – a meno che non si tratti di un futuro che è assolutamente identico al presente, o meglio ancora simile al passato. L’unico aspetto del progresso che ci è stato permesso considerare è il progresso che rende necessario cambiare il cellulare, o aggiornare la scheda grafica del PC.

Future Rising, di Andrew Maynard, ha per sottotitolo A Journey from the Past to the Edge of Tomorrow, ed è strutturato come una cronologia, e come un vocabolario. Pagina dopo pagina l’autore prende rapidamente in esame concetti essenziali per chiarire il nostro rapporto con il futuro – come specie, e come civiltà. Si comincia dalle basi – il tempo, la luce, l’energia – per passare ai principi che portano al funzionamento del nostro cervello – la memoria, l’immaginazione, la creatività – per proseguire avanti fino a quello che viene definito “l’orlo del domani” – popolato di limiti e di cataclismi.

Il volume è costellato di fatti che potrebbe piacerci approfondire con un giro su Wikipedia, ma non è tanto un testo di divulgazione quanto un promemoria di ciò che siamo, intellettualmente, come individui e come civiltà. I singoli capitoli sono il genere di cose che – se solo le tenessimo a mente – ci eviterebbero di essere circondati di complottisti e terrapiattisti, e forse ci aiuterebbero ap rendere delle decisioni cruciali in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo.

Un ottimo volume, che si legge in un weekend e che può essere utile tornare a consultare di tanto in tanto.

E come sempre c’è un link commercial ein questo post, e se acquisterete il libro attraverso di esso questo blog riceverà una piccola percentuale.

Margaret the First, Danielle Dutton (2016)

Margaret Cavendish, Duchessa di Newcastle-upon-Tyne, fu la prima in un sacco dic ose – la prima donna a tenere una conferenza alla Royal Society, la prima donna in Inghilterra a vivere della propria scrittura, l’autrice di quello che secondo molti è il primo romanzo di fantascienza della storia.

Margaret the First è un romanzo storico, la biografia romanzata di Meg la Pazza, come la chiamavano i suoi concittadini. Sposata con un uomo di trent’anni più vecchio di lei che appoggiò sempre i suoi progetti, vissuta per sedici anni in esilio ad Antwerp dopo che Cromwell aveva preso il potere, autrice di saggi filosofici e opere teatrali, poesie e romanzi, biografie e articoli, Margaret Cavendish viene raccontata nel breve romanzo della Dutton (pocopiù che 160 pagine) con uno stile frammentario e disordinato che replica con estrema fedeltà lo stile di scrittura della protagonista – che all’uscita del suo primo libro venne derisa per la sua sintassi bislacca e per il suo approccio creativo alla grammatica.

In parte narrato in forma di diario, in parte come cronaca, il libro della Dutton è un ritratto molto affettuoso di una donna di almeno tre secoli in anticipo rispetto ai tempi. E davvero, è quasi impossibile non voler bene a Margaret Cavendish, la donna che ipotizzò che la luna fosse fatta d’acqua, e ciò che noi vediamo sulla superficie solo il riflesso di mari e montagne della Terra. La donna che postulò che anche gli oggetti inanimati posseggano una intelligenza – in modo da poter sostenere l’ipotesi che anche le donne potessero essere intelligenti. La donna che inventò, fra le altre cose, il concetto di multiverso, e l’idea che interi universi si possano annidare nell’infinitamente piccolo degli atomi che compongono la materia.

Strano, diverso, spesso scritto con una struttura quasi poetica, a volte invece più simile a una collezione di ritagli, Margaret the First è un eccellente romanzo su una donna infinitamente affascinante.

E questo post contiene un link per l’acquisto del libro, per cui sapete cosa aspettarvi. Tra l’altro, è uno di quei casi in cui la differenza di appena 50 centesimi nel prezzo rende più conveniente acquistare il cartaceo – non fosse altro che per la copertina.

Writing the Uncanny, Coxon & Hirst (2021)

Il volume curato da Dan Coxon & Richard V. Hirst si presenta come un manuale di scrittura, ma non contiene istruzioni, regole o accorgimenti che un autore possa utilizzare per il proprio lavoro. Si tratta invece di una collezione di articoli di autori contemporanei, tutti più o meno associati a quel genere letterario che occupa lo spazio fra il fantastico ed il weird.

Prendendo le mosse dal lavoro di Sigmund Freud “Das Unheimichle” del 1919, che crea la definizione di “Uncanny” e passando per l’opera di Shirley Jackson e di Robert Aickman, che danno forma ad un catalogo di esempi di questo sottogenere, gli autori coinvolti in Writing the Uncanny cartografano le acque incerte di un genere che è a tal punto indefinito da non avere una collocazione precisa – horror, fantasy, storia di spettri, narrativa surreale…
I diversi aspetti del genere vengono ampiamente discussi, con un taglio fortemente personale – al punto che ciascun articolo è quasi un breve saggio sul rapporto che lega l’autore o l’autrice al genere.

Si può certamente imparare molto leggendo queste pagine, come si impara sempre nell’ascoltare i colleghi che discutono del porprio lavoro, ma un autore in cerca di un manuale potrebbe sentirsi deluso o tradito.

Per me rimane una lettura affascinante e divertente – e chissà, forse un giorno utile – ma non si tratta necessariamente di un libro per tutti.

E come sempre c’è un link commerciale in questo post. Sapete come vanno queste cose.

The Etched City, K.J. Bishop (2003)

L’unico romanzo pubblicato finora dalla australiana Kirsten J. Bishop è stato candidato al World Fantasy Award, all’Aurealis Award, ed è arrivato al terzo posto nella lista dei migliori romanzi del 2003 della rivista Locus. Quelli fighi dicono che è New Weird, e lo paragonano al lavoro di China Mieville, ma noi vecchi pensiamo piuttosto alle storie di Viriconium di M. John Harrison, e lo definiamo semplicemente fantasy.

The Etched City è uno di quei romanzi fantasy che ti obbligano a ricordare perché leggi fantasy – non per infinite ricotture di elfi e orchi, ma per poter godere di un linguaggio meraviglioso al servizio di una immaginazione senza limiti.

È possibile che molti, nel leggere questa storia di rivoluzioni fallite, di crisi morali e ambientali, di tradimenti e di intrighi, fatichino a riconoscerlo come fantasy. Ci sono le armi da fuoco. Non c’è unamappa. L’ambientazione è vagamente ottocentesca, il tono, almeno inizialmente, ricorda un western di Sergio Leone.
E forse sì, potrebbe essere (anche) una versione fantasy di Giù la testa.

La Bishop è una autrice che ha pubblicato relativamente poco, e limitandosi quasi esclusivamente alla forma breve – i suoi racconti sono raccolti in un volume dal titolo That Book Your Mad Ancestor Wrote, uscito solo in ebook nel 2012.
Per una volta alla scarsa quantità corrisponde una qualità altissima.

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How to live on Mars, Robert Zubrin (2008)

Robert Zubrin, classe 1952, è un ingegnere aerospaziale che da qualcosa come trent’anni promuove l’idea della colonizzazione di marte. Il suo libro The Case for Mars, uscito nel 1996, è certamente uno dei migliori testi sulla colonizzazione del pianeta rosso mai scritti. Il successivo Entering Space, del ’98, è altrettanto buono. Dopo anni di lavoro con la Lockeed Martin e nel settore aerospaziale – sviluppando tra l’altro il progetto Mars Direct – Zubrin fondò nel 1998 la Mars Society, per promuovere i progetti di esplorazione e colonizzazione umana di Marte.

Considerata la qualità e la longevità dei volumi precedenti, è con un certo interesse che ho messo le mani su How to live on Mars, sottotitolato A Trusty Guidebook to Surviving and Thriving on the Red Planet, ed uscito nel 2008.
Non è stata una lettura facile.

Da sempre su posizioni più o meno libertarie, Zubrin ha sviluppato negli anni una evidente animosità nei confronti di NASA ed ESA, e di tutti i progetti pubblici di esplorazione spaziale – forse perché i suoi progetti non sono andati da nessuna parte. Il volume del 2008 è perciò farcito di continue divagazioni sulla stupidità dei progetti dei governi americani ed europei, sullo spreco di risorse e sull’arretratezza delle tecnologie sviluppate dalla NASA e dall’ESA.
Se siamo qui per leggere di Marte e della colonizzazione del pianeta, poco ci importa di un continuo martellamento su quanto sia preferibile ed efficiente l’iniziativa privata. E l’idea del prendere scorciatoie, infischiarsene delle regolamentazioni e degli accordi al fine di “afferrare il futuro” suonano vagamente sinistri allo stato attuale.

Ma ancora più irritante dell’impianto ideologico di Zubrin, è la scelta del linguaggio, a rendere faticosa la lettura. Rubando l’idea a Gerard K. O’Neill, che scrisse una docufiction per presentare le proprie idee sulla colonizzazione spaziale (in 2081: A Hopeful View of the Human Future, del 1981), Zubrin ci presenta il suo manuale sulla colonizzazione marziana come un documento ad uso dei coloni appena sbarcati sul pianeta rosso, o per le persone che stessero pensando di emigrare.
Una scelta curiosa, considerando le frecciate che Zubrin riserva a O’Neill, già fisico e consulente NASA, liquidato come “autore fantasy”. Ed una scelta nefasta nella decisione di utilizzare un tono arrogante e ironico – l’ipotetico autore del pamphlet diretto ai coloni è uno che la sa lunga, che ha visto il mondo e che dice le cose come stanno, con una supponenza assolutamente irritante ed un cinismo a tratti insopportabile.
È come essere obbligati ad ascoltare un personaggio di Robert A. Heinlein che ci spiega perché non abbiamo capito nulla della vita, per pagine e pagine e pagine.

Ancora una volta, noi siamo qui per saperne di più sulla possibilità di colonizzare Marte – e le informazioni ci sono, concise e interessanti. Ma sono seppellite sotto pagine e pagine di pessima prosa, e avvelenate dall’ipotesi, che si fa più prepotente mano a mano che si procede nelal lettura, che certe soluzioni o ipotesi vengano scartate semplicemente perché fanno parte dell'”ortodossia della NASA”, mentre altre vengono presentyate come eccezionali perché animate da un sano desiderio per il profitto.

Un vero peccato, perché l’argomento è interessante e – quando Zubrin si ricorda di svilupparlo – ben sviluppato.